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Cassazione – Sezione seconda – sentenza 24 giugno – 14 ottobre 2010, n. 21229
Presidente Rovelli – Relatore Bucciante
Ricorrente P. e altro
Svolgimento del processo
G.P. citò davanti al Tribunale di Roma D.P., P.S. e G. L. L., esponendo che l’8 agosto 1973 il secondo convenuto, agendo in rappresentanza del primo, si era obbligato a vendere al terzo, il quale aveva poi ceduto il contratto all’attore, una porzione di un comprensorio immobiliare sito in località Sant’Antonio, risultata poi priva del requisito dell’edificabilità, di cui era stata garantita la sussistenza. Chiese pertanto che fosse pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento e che D.P.e G.L.L. fossero condannati alla restituzione, rispettivamente, delle somme di lire 22.000.000 e di lire 9.300.000, con interessi e rivalutazione monetaria, e il primo altresì al risarcimento dei danni, da liquidare in separata sede. Costituitisi in giudizio, i convenuti contestarono la fondatezza degli assunti dell’attore; D.P.chiese anche, in via riconvenzionale, che fosse dichiarata la risoluzione sia del contratto preliminare sia del negozio di cessione, per inadempimento di G.P., con sua condanna al risarcimento dei danni e con autorizzazione allo stesso D.P. e agli altri proprietari del fondo a trattenere le somme che l’attore aveva loro versato.
All’esito dell’istruzione, con sentenza del 9 gennaio 2004 il Tribunale dichiarò: la nullità della citazione relativamente a P.S.; la prescrizione del diritto fatto valere nei confronti degli eredi del defunto G.L.L., costituitisi in giudizio in seguito al suo decesso; la risoluzione del contratto preliminare e del negozio di cessione per fatto e colpa di D.P., il quale fu condannato alla restituzione di 115.686,10 euro e al risarcimento dei danni da liquidare in separata sede in favore di G.P..
Impugnata in via principale da D.P. e incidentalmente da G.P., la decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 29 gennaio 200 9 ha ridotto a 68.359,97 euro la condanna di D.P. i in favore di G.P.
Contro questa sentenza sono stai proposti i ricorsi per cassazione principale e incidentale indicati in epigrafe.
Motivi della decisione
Con i primi tre motivi del ricorso principale D.P. deduce che la Corte d’appello ha erroneamente disconosciuto la nullità da cui era affetta la sentenza di primo grado, per non essere stata disposta la cancellazione della causa dal ruolo in seguito alla tardiva sua iscrizione da parte dell’attore, il quale vi aveva provveduto dopo la scadenza del termine stabilito dall’art. 165 c.p.c., come era stato eccepito nella prima udienza da P.S., unico tra i convenuti che fino a quel momento si era costituito in giudizio.
La censura è infondata.
È condivisibile – perché coerente con il basilare principio di conservazione, che informa il sistema del diritto processuale civile – l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui si era trattato di una irregolarità ininfluente, perché superata dalla mancanza di pregiudizi per l’esercizio del diritto di difesa dei convenuti, nessuno dei quali – né lo stesso P.S. né gli altri, costituitisi in giudizio successivamente – aveva in proposito formulato doglianze di sorta. Appunto in questo senso si è del resto più volte pronunciata questa Corte, con riguardo in generale a tutti i vizi dell’iscrizione della causa a ruolo, tra i quali non vi è ragione di non includere anche la sua tardività (Cass. 11 giugno 2009 n. 13528).
Tra gli altri motivi addotti a sostegno del ricorso principale, deve essere preso in esame prioritariamente, stante il suo carattere pregiudiziale ed assorbente, l’ottavo, con il quale si sostiene che la nullità dell’atto introduttivo del giudizio, dichiarata dal Tribunale solo con riguardo a P.S., avrebbe dovuto essere estesa anche agli altri convenuti.
L’assunto non è condivisibile.
La nullità di cui si tratta è stata ritenuta sussistente dal giudice di primo grado perché nei confronti di P.S. l’attore non aveva formulato alcuna domanda. Correttamente quindi la Corte d’appello, in applicazione della regola sancita dall’art. 159 – II comma c.p.c, ha escluso che ne potesse derivare l’invalidità della citazione in quanto rivolta anche a D.P. e a G.L.L., nei cui confronti, la causa poteva essere decisa indipendentemente dalla partecipazione al giudizio di P.S., non essendo configurabile tra i convenuti un rapporto di litisconsorzio necessario.
Ne consegue il rigetto anche del settimo motivo di ricorso, con il quale D.P. si duole della qualificazione come “priva di causa”, data nella sentenza impugnata alla citazione di P.S. nel giudizio di appello: qualificazione giustificata dalla circostanza che nei confronti di costui nessuna domanda era stata proposta dalle altre parti, compreso lo stesso D.P..
L’esattezza di quest’ultima affermazione della Corte d’appello viene contestata con il ventiduesimo motivo di ricorso, con cui D.P.segnala di aver chiesto, nelle conclusioni formulate a conclusione del giudizio di secondo grado, la condanna di P.S. al risarcimento dei danni, in solido con G.P..
La censura è inconferente, poiché la domanda di cui si tratta, a norma dell’art. 345 c.p.c, era comunque destinata ad essere rigettata anche d’ufficio, essendo stata proposta per la prima volta in appello.
Con il quarto motivo il ricorrente principale lamenta che la Corte d’appello ha mancato di rilevare l’ultrapetizione in cui era incorso il Tribunale, avendo basato la propria decisione sulla circostanza che i lotti promessi in vendita erano stati alienati a un terzo, mentre l’attore aveva unicamente dedotto che essi erano privi della edificabilità: requisito la cui mancanza poteva comunque comportare semmai l’annullamento del contratto preliminare, ma non la sua risoluzione, che in ipotesi avrebbe potuto essere pronunciata soltanto se si fosse trattato di vendita definitiva.
La censura va disattesa.
L’errore da cui si assume che fosse viziata la sentenza di primo grado è rimasto comunque superato da quella di appello, con la quale la risoluzione è stata pronunciata (anche) in considerazione del difetto, negli immobili in questione, della qualità suddetta: difetto costituente un vizio della cosa che può senz’altro costituire, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, idonea causa di risoluzione per inadempimento, non solo dei contratti definitivi di vendita, ma anche di quelli preliminari (Cass. 31 luglio 2006 n. 17304).
Con il quinto e il diciassettesimo motivo di ricorso D.P. critica la sentenza impugnata, sotto i profili della congruità della motivazione e della conformità ai canoni legali di interpretazione negoziale, nella parte in cui si è ritenuto che realmente la edificabilità dei suoli oggetto della promessa di vendita fosse stata presupposta nel contratto.
Neppure queste doglianze possono essere accolte.
Sul punto la Corte d’appello ha dato conto in maniera esauriente e logicamente coerente delle ragioni della decisione, osservando che nella scrittura era stata espressamente indicata la suddivisione in lotti del comprensorio ed erano state previste le caratteristiche delle future costruzioni. La frase della sentenza impugnata in cui viene esposto tale argomento è effettivamente priva del verbo della proposizione principale, ma ciò non nuoce affatto alla sua comprensibilità, come sostiene il ricorrente, il quale affida a questa unica contestazione la dimostrazione della dedotta carenza di motivazione. Quanto poi all’asserita inosservanza delle regole legali di. ermeneutica, va rilevato che la censura si risolve in una assiomatica negazione di quanto il giudice a quo ha desunto dal testo del contratto, in applicazione proprio del criterio letterale, che secondo il ricorrente è stato trascurato.
Con il sesto, il nono e il decimo motivo di ricorso si sostiene che ogni responsabilità avrebbe dovuto essere addebitata esclusivamente a P.S. il quale aveva concluso il contratto quale falsus procurator di D.P., senza che poi costui ne avesse ratificato l’operato mediante un atto rivestito della necessaria forma scritta, come invece erroneamente ha ritenuto la Corte d’appello, basandosi su un comportamento processuale tenuto seminai dal difensore dello stesso D.P. pertanto a quest’ultimo non riferibile.
La doglianza va disattesa.
Quando la procura alla lite è apposta in calce o a margine di un atto processuale, come nel caso della comparsa di costituzione di D.P.. nel giudizio di primo grado, il suo contenuto viene fatto proprio dalla parte, cui pertanto va attribuito, comprese le eventuali dichiarazioni di portata negoziale che vi siano incluse (Cass. 27 settembre 2006 n. 20948). Correttamente, quindi, con la sentenza impugnata si è deciso che l’operato di P.S. era stato ratificato da D.P., il quale nella sua comparsa di risposta aveva riconosciuto di essere subentrato nel rapporto derivante dal negozio concluso in suo nome, incassando somme dal cessionario e rifiutando bensì la stipulazione della vendita definitiva, ma per una ragione diversa dal difetto di rappresentanza da parte di P.S.. Né del resto egli sarebbe stato legittimato a chiedere, come ha fatto in via riconvenzionale, la pronuncia di risoluzione del contratto stesso per inadempimento e la condanna dell’attore al risarcimento dei conseguenti danni, se al rapporto suddetto fosse rimasto estraneo.
Con l’undicesimo e il dodicesimo motivo del ricorso principale D.P. lamenta di essere stato condannato alla restituzioni delle somme in questione e al risarcimento dei danni in favore di G.P., pur se costui non aveva provato di essere stato effettivamente cessionario, mediante un atto dotato della necessaria forma scritta, del contratto preliminare stipulato da G.L.L..
Neppure questa censura può essere accolta.
Vi osta l’assorbente e decisiva ragione della novità della questione di cui si tratta, implicante la necessità di accertamenti di fatto e apprezzamenti di merito, che non ha formato oggetto di decisione con la sentenza impugnata e che il ricorrente non ha dedotto, come era suo onere, essere stata prospettata – e con quali modalità – nel giudizio a quo (Cass. 28 luglio 2008 n. 20518).
Con lo stesso dodicesimo motivo di ricorso e con i quattro successivi D.P. sostiene che la domanda di G.P. avrebbe dovuto comunque essere rigettata, a causa della difformità delle due scritture prodotte dalle parti, in cui i lotti promessi in vendita erano indicati con numeri identificativi diversi: l’alterazione di quello in possesso dello stesso P. avrebbe dovuto essere addebitata a P.S., che gliela aveva consegnata, come si era chiesto di dimostrare con la prova testimoniale che ingiustificatamente non è stata ammessa; né il documento, in quanto effettivamente firmato dal presunto procuratore, poteva essere utilmente oggetto del disconoscimento che la Corte d’appello ha ritenuto necessario; la discordanza tra i due esemplari del contratto preliminare comportava inoltre l’indeterminatezza dei beni promessi in vendita.
Anche queste censure vanno disattese.
Non investono infatti, in maniera specifica e puntuale, la ratio decidendi posta a base, sul punto, della sentenza impugnata, con la quale si è ritenuto che dei due documenti, redatti a macchina e firmati entrambi come originali, quello prodotto da G.P. riproduceva effettivamente la volontà delle parti, mentre l’altro in possesso di D.P. era stato modificato con correzioni a mano, in epoca imprecisata dopo la sottoscrizione. Dal che ineccepibilmente la Corte d’appello ha desunto che comunque soltanto del primo poteva tenersi conto. Né rileva, nei rapporti tra G.P. e D.P., che in ipotesi l’alterazione di una delle scritture fosse stata opera di P.S., o di chiunque altro.
La conformità a diritto della condanna di D.P. in favore di G.P. viene contestata in radice anche con il ventitreesimo motivo del ricorso principale, con il quale si afferma che la risoluzione, essendo stata pronunciata con effetto retroattivo con riguardo non solo al contratto preliminare, ma anche al negozio di cessione, ha privato lo stesso G.P. di ogni titolarità dei diritti che egli ha preteso di far valere.
La tesi è infondata, poiché proprio la risoluzione costituisce il presupposto dei diritti alla restituzione e al risarcimento, che l’attore aveva fatto valere nel promuovere il giudizio e che gli sono stati riconosciuti in sede di merito.
I motivi dal diciottesimo al ventunesimo del ricorso principale si riferiscono specificamente alla condanna di D.P. alla corresponsione della rivalutazione monetaria delle somme da restituire a G.P.
Nessuna delle doglianze formulate in proposito dal ricorrente può essere accolta.
La Corte d’appello ha dato atto che il primo giudice aveva pressoché decuplicato l’importo originario del debito, sicché è ininfluente l’errore di calcolo che ha commesso, nel ritenere che D.P. avesse indicato la misura dell’aumento nel 1000 per mille, anziché nel 1000 per cento.
L’entità della rivalutazione accordata a G.P. contrariamente a quanto si sostiene nel ricorso, è stata adeguatamente motivata nella semenza impugnata, con cui si è osservato che la mora del debitore si protraeva da oltre trenta anni, nel corso dei quali l’inflazione aveva raggiunto indici anche del 13%: il che giustifica li risultato cui la Corte d’appello è pervenuta.
La questione relativa alla mancanza di prove circa un effettivo pregiudizio, che il creditore avesse subito in seguito all’aumento del costo della vita, è da ritenere preclusa in questa sede a causa della sua novità, per le stesse ragioni esposte a proposito dell’undicesimo e del dodicesimo motivo di ricorso.
Infine, nessuna indebita duplicazione è ravvisabile nella contestuale condanna di D.P. sia alla corresponsione della rivalutazione monetaria della somma dovutagli in restituzione, sia al risarcimento dei danni, da liquidare in separata sede. Come esattamente ha rilevato la Corte d’appello, non si può escludere che G.P., a causa del mancato acquisto dei beni oggetto del contratto preliminare, abbia subito un pregiudizio ulteriore, rispetto a quello derivante dal ritardo con cui gli sono state restituite le somme versate al promittente venditore: danni di cui solo nel futuro giudizio dovrà essere provata la sussistenza e l’entità.
Del motivo addotto a sostegno del ricorso incidentale proposto da G.P., il resistente D.P. ha eccepito pregiudizialmente l’inammissibilità, in base a vari argomenti che vanno tutti disattesi: la censura è sostanzialmente unitaria, sicché non occorreva che fosse articolata in distinte doglianze; la richiesta di “riforma”, anziché di “cassazione” della sentenza impugnata è ininfluente, poiché compete a questa Corte, in caso di accoglimento del ricorso, stabilire di ufficio, indipendentemente dalle richieste delle parti, se la sentenza impugnata debba essere cassata con o senza rinvio, o se eventualmente la causa possa essere decisa nel merito (Cass. 4 marzo 2010 n. 6994); viene sostanzialmente denunciata una carenza di motivazione, relativamente a un fatto controverso indicato con chiarezza e precisione; la censura rivolta al capo della sentenza di appello, con cui è stata determinata la somma che D.P. è tenuto a rimborsare a G.P., implica che sia stata impugnata – e non possa quindi considerarsi passata in giudicato, come sostiene il ricorrente – anche la decisione del giudice di secondo grado, relativa alla condanna del medesimo G.P. a restituire quanto aveva percepito in più, in esecuzione della sentenza dei Tribunale, rispetto alla minore somma di cui la Corte d’appello lo aveva ritenuto debitore.
Sebbene sia quindi ammissibile, il ricorso in esame non può essere accolto.
Vi si sostiene che con la sentenza impugnata erroneamente è stata individuata in lire 13.000.000, anziché in lire 22.000.000, la somma che G.P. aveva versato a D.P. e che quest’ultimo deve restituirgli, oltre alla rivalutazione monetaria. Si verte dunque in tema di un accertamento eminentemente di fatto, insindacabile in questa sede se non sotto il profilo dell’omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione. Ma da tali vizi la sentenza impugnata è immune, poiché il giudice a quo ha dato adeguatamente conto delle ragioni della propria decisione sul punto, osservando che le somme ricevute da D.P. in forza del contratto preliminare in questione risultavano ammontare, alla luce della documentazione acquisita, in lire 4.000.000 versate dall’originario contraente e in lire 9.000.000 corrisposte dal cessionario del negozio, mentre la somma portata da un assegno consegnato “in garanzia” al promittente venditore non risultava essere stata incassata. I diversi e contrari assunti del ricorrente incidentale non possono costituire idonea ragione di cassazione della sentenza impugnata, stanti i limiti propri del giudizio di legittimità.
I ricorsi vanno pertanto entrambi rigettati.
Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti per giusti motivi, ravvisabili per D.P. e G.P. nella reciproca loro soccombenza, per P.S. nell’avvenuta sua sostanziale estromissione dal processo, già all’esito del giudizio di primo grado.
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
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