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Anche per il primo Presidente della Corte di Cassazione, l’obbligatorietà del tentativo di mediazione è indispensabile.
Di Redazione MondoADR
Intervento di Ernesto Lupo, Primo Presidente della Corte di Cassazione, alla conferenza “Il Giusto rapporto tra giurisdizione e mediazione” del 19 ottobre 2012.
Rivolgo a Voi tutti il mio saluto ed il mio ringraziamento per la Vostra presenza a questo Convegno che la Corte di Cassazione ha accettato e voluto ospitare in questa Aula magna per la sua specifica importanza, e per il taglio internazionale che lo caratterizza. Un ringraziamento, in particolare, agli illustri ospiti qui giunti dai paesi di oltre confine. Un ringraziamento mi è gradito rivolgere, infine, alla Commissione europea che promuove e sostiene queste importanti occasioni di informazione e dibattito sulla mediazione, che si svolgono in varie città dell’Unione.
Il tema del convegno è particolarmente rilevante perché non sollecita solo una riflessione sui contenuti e la funzione della mediazione, ma volge il suo sguardo al rapporto tra la via della soluzione alternativa dei conflitti e la via giudiziaria che deve essere comunque offerta e garantita dalla Stato nei casi in cui la via alternativa non si sia rivelata percorribile. Il presupposto implicito di questa riflessione riposa su un principio innovativo sconosciuto alla cultura italiana fino a pochi anni addietro: quello che attribuisce alla via giudiziaria di soluzione dei conflitti una funzione di estremo rimedio, percorribile solo se e quando si sia verificata la impossibilità di soluzioni non conciliative.
Ma questa prospettiva impone anche l’individuazione del punto di equilibrio; la ricerca, cioè, delle regole che, per un verso, convincano le parti ad imboccare la via alternativa di soluzione del loro conflitto e, per l’altro, non limitino in modo apprezzabile la possibilità del ricorso alla via giudiziaria, che è e deve rimanere garantita nel modo più pieno, senza limitazioni gravose o anche solo in modo apprezzabile dissuasive.
L’istituto della mediazione, da noi, è stato introdotto dal D.lgs. n. 28 del 2010 per dare attuazione alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2008/52/CE. In Italia si è voluto diffondere la convinzione che la mediazione abbia solo e soprattutto una funzione deflattiva del contenzioso civile. Ma già nella Direttiva si chiarisce come l’istituto affondi le proprie radici nel movimento del “Access to justice”, che ha invece un più profondo e nobile fondamento, muovendo dall’idea che alla giustizia statale vada riservato il ruolo di estremo rimedio per la soluzione del conflitto; rimedio a cui il cittadino, anche a causa dei costi del processo, ma non solamente per questo, deve potere avere accesso solo quando ogni altro mezzo meno conflittuale sia stato tentato.
Il più ampio spazio riservato alla mediazione non nasce solo da esigenze di contenimento dei costi, ma soprattutto dalla constatazione che la soluzione giudiziaria pone termine alla lite, ma non riesce a pacificare gli animi. Per di più, essa offre spesso una soluzione che non soddisfa neppure la parte vincitrice, soprattutto quando il binario obbligato del “thema decidendum” non consente soluzioni articolate e anche creative che aprano la strada al soddisfacimento durevole degli effettivi interessi in gioco.
In questa prospettiva, del resto, va letto il sesto “considerando” della direttiva europea del 2008: “La mediazione — si legge — può fornire una soluzione extragiudiziale conveniente e rapida della controversia … attraverso procedure concepite in base alle esigenze delle parti. Gli accordi risultanti dalla mediazione — si legge inoltre — hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti.”
In Italia, il tentativo di conciliazione è previsto dal legislatore come obbligatorio in diverse materie. La scelta è dovuta alla necessità di forzare un cambiamento culturale che altrimenti sarebbe sicuramente mancato. Ma è soprattutto per l’obbligatorietà che l’istituto è oggetto di forti critiche da parte di alcune componenti della avvocatura. Queste critiche non debbono essere ignorate, ma neppure possono condurre a cestinare un istituto prima che questo abbia potuto essere sufficientemente sperimentato.
Occorre piuttosto un confronto per perfezionare l’istituto e quindi favorire quel cambiamento di paradigma che esso comporta, e al quale i giuristi — parlo anche dei magistrati, non solo degli avvocati — non sono ancora pronti anche a causa dei limiti che caratterizzano la formazione nelle nostre Facoltà di giurisprudenza. Confronto che la prossima sentenza della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di alcune norme della legge, sicuramente sarà in grado di orientare nel modo più convincente con l’alta autorità della sua decisione.
Questo convegno ci offre, appunto, l’occasione per una riflessione che ci permetta di continuare un percorso verso il perfezionamento di un istituto al quale, personalmente, guardo con grande speranza perché, dal posto che occupo, vedo ogni giorno le enormi difficoltà provocate dall’abnorme domanda di giustizia, che finisce per soffocare l’apparato giudiziario, oggi incapace di assicurare un servizio adeguato alle esigenze di una società civile come la nostra.
A tutti grazie dell’attenzione e l’augurio di un proficua prosecuzione dei lavori.
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